mercoledì, 16 Aprile, 2025

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Intervista su Radio City Light a LUCA V che ci presenta il suo nuovo singolo ” PELLE DI PROZAC”

Luca V sceglie una produzione essenziale e diretta per raccontare una ferita che pulsa ancora. “Pelle di Prozac” è un brano che incrocia le sonorità dell’emo-pop con l’urgenza espressiva dell’indie più intimista, costruendo un dialogo tra disorientamento e desiderio di guarigione.

Il risultato è una ballata contemporanea dove ogni nota sembra chiedere ascolto e comprensione, ogni immagine un grido silenzioso verso sé stessi.

INTERVISTA

Quali sono i tuoi riferimenti musicali e in particolar modo nell’ambito cantautorale?
I miei riferimenti musicali sono cambiati nel tempo, si sono stratificati, si sono allontanati e poi, a volte, sono tornati in forme diverse. Nell’ambito cantautorale, però, ci sono alcuni nomi che hanno lasciato un’impronta forte, anche nei momenti in cui non li ascoltavo attivamente. Samuele Bersani, ad esempio, è uno di quei punti fermi che ho scoperto molto presto. Non solo per la scrittura, che è raffinata senza mai essere compiaciuta, ma per quella sua capacità di raccontare il disagio con una dolcezza quasi disarmante. Mi ha fatto capire che si può essere profondi senza urlare, e poetici senza diventare ermetici.
Un altro riferimento importante per me è stato – e continua a essere – Dargen D’Amico. So che non è un nome che si associa subito al cantautorato nel senso più classico del termine, ma per me è tra i più brillanti. Ha una scrittura che mescola slanci filosofici, quotidianità e nonsense con una naturalezza spiazzante. Ascoltarlo mi ha insegnato che esiste un modo tutto personale di stare dentro una canzone, anche quando sembra che tu stia un po’ ai margini. E mi ha fatto anche un po’ di compagnia, in certi momenti.
Nel tempo ho scoperto anche altri artisti che stimo moltissimo. Daniele Silvestri, per quella sua capacità di tenere insieme pensiero critico e leggerezza. Brunori, per la sua narrazione intima e al tempo stesso collettiva. Niccolò Fabi, per la delicatezza con cui tocca cose enormi. Ma più che seguire un modello, ho sempre cercato di osservare. Di capire come questi artisti riuscissero a rendere universale qualcosa che nasceva da un dettaglio minuscolo.
A volte ho avuto la tentazione di somigliare a qualcuno. Poi ho capito che quello che posso fare, al massimo, è lasciarmi attraversare. Prendere ciò che risuona, e lasciar perdere il resto. Così provo a costruirmi un mio equilibrio, magari instabile, ma sincero.

Come nasce un testo, quali sono gli input che raccogli e che trasformi in parole da cantare?
La scrittura di un testo, per me, non segue una procedura definita. Non ho rituali precisi né orari dedicati. A volte nasce tutto da una frase che mi viene in mente che mi colpisce senza preavviso, altre da una sensazione che resta lì, in sottofondo, per giorni. Può bastare un’immagine fugace, un dettaglio che al momento sembra insignificante, ma che poi si sedimenta. Altre volte, invece, non c’è nulla di tangibile. Solo un’urgenza vaga, un bisogno di mettere ordine o almeno forma a qualcosa che dentro fa rumore.
Gli input arrivano dai luoghi più diversi. Da una conversazione sentita a metà, da una parola detta male, da una situazione che ho vissuto o che ho solo immaginato. Ma non mi interessa tanto raccontare i fatti. Quello che cerco, piuttosto, è una verità emotiva. Qualcosa che possa esistere anche fuori da me, anche nelle storie degli altri. La scrittura, da questo punto di vista, non è mai solo autobiografica. È più un ponte. O una traduzione.
Spesso inizio scrivendo frasi sparse sul telefono, di notte o nei momenti in cui la mente è meno “sorvegliata”. Non cerco coerenza. Raccolgo. Poi, con calma, rileggo e provo a trovare un ritmo. A volte tutto prende forma in pochi minuti, altre volte ci vogliono settimane. E va bene così. Il tempo, quando si scrive, non può essere forzato.
Mi interessa che il testo respiri. Che abbia pause, vuoti, sbavature anche. Non scrivo per spiegare, ma per suggerire. Per mettere in ordine un disordine che, forse, non si risolve mai del tutto. Ed è proprio lì che trovo la parte più autentica. In quello spazio imperfetto tra ciò che si sente e ciò che si riesce a dire.

È da poco uscito il tuo nuovo singolo. Quale messaggio vuoi trasmettere e, soprattutto, qual è stata la molla che ti ha spinto a scrivere questo pezzo?
Il mio nuovo singolo, Pelle di Prozac, non è nata con l’idea di trasmettere un messaggio chiaro o definito. Non c’era un obiettivo, un concetto da comunicare o una riflessione da mettere in musica. È partita da qualcosa di molto più confuso, personale, quasi privato. Un senso di disconnessione che non riuscivo a spiegare nemmeno a me stesso. Quel tipo di vuoto emotivo che ti accompagna anche quando tutto intorno sembra funzionare, ma dentro senti che manca qualcosa. O che qualcosa è troppo, e non sai da dove cominciare per tirarlo fuori.
La scintilla è arrivata in una notte apparentemente senza significato. Non stavo cercando un’idea per scrivere, non c’era un progetto. C’era solo quel blocco, quella stanchezza emotiva difficile da raccontare. Ho preso il telefono, ho scritto qualche frase veloce, parole che nemmeno suonavano bene insieme. Ma avevano un peso. Dopo qualche giorno, ci sono tornato sopra, riascoltando un vocale che avevo registrato quasi sussurrando. E in quelle parole, che sembravano incomplete, ho riconosciuto qualcosa di autentico. Così ho iniziato a costruirci intorno.
Non volevo dare risposte. Volevo lasciare spazio. Pelle di Prozac parla di difficoltà, di silenzi, di tentativi mancati. Di parole che restano in gola, e di gesti che non si compiono. Non è una canzone esplicita, non cerca di spiegarti come sentirti. Al contrario, accoglie il fatto che certe emozioni non si riescano a nominare.
Se posso dire di voler trasmettere qualcosa, allora forse è proprio questo. L’idea che anche nel vuoto, anche nell’incertezza, c’è qualcosa di valido. Che anche quando non sai bene come stai, puoi riconoscerti in una voce che, semplicemente, ci prova. Senza clamore. Senza verità assolute. Con la stessa fragilità che, a volte, ci tiene in piedi.

Quanto tempo ha richiesto la realizzazione del singolo?
Dal punto di vista tecnico la realizzazione del singolo ha richiesto qualche mese. La scrittura è nata in modo spontaneo, quasi di getto, e la produzione si è sviluppata in tempi contenuti. In studio, con Lorenzo Avanzi, il lavoro è stato fluido. Ci siamo capiti subito, e tutto ciò che serviva per dare forma alla canzone è arrivato con una certa naturalezza. Ma una cosa è finire un brano. Un’altra è decidere di farlo uscire davvero.
Pelle di Prozac è rimasta in attesa per un anno e mezzo. Non per motivi discografici, né per strategie di pubblicazione. Semplicemente non riuscivo a sentirmi pronto. Ero in una fase molto complicata a livello personale. Soffrivo di depressione, diagnosticata, e tutto quello che fino a poco tempo prima mi sembrava gestibile, improvvisamente era diventato opaco. L’insicurezza, il senso di inadeguatezza, la stanchezza mentale hanno rallentato tutto. Anche la mia relazione con questo brano.
Lo riascoltavo spesso, ma ogni volta sentivo che mancava qualcosa. O forse ero io a “mancarmi”. Quando ci si trova in un periodo di fragilità emotiva, anche le cose che abbiamo creato con sincerità iniziano a sembrarci sbagliate. Fuori luogo. Non all’altezza. Così il singolo è rimasto fermo. Nonostante fosse lì, pronto. In attesa.
Col tempo, senza forzature, ho iniziato a guardarlo in modo diverso. Non perfetto, certo, ma vero. Non brillante, forse, ma necessario. E quando ho smesso di cercare in lui una forma di riscatto, ho capito che poteva finalmente uscire. Perché non era un gesto di forza, ma di accettazione. E questo, oggi, è per me il suo valore più profondo.

Quali sono le collaborazioni che ti hanno aiutato alla realizzazione del brano?
La collaborazione centrale, quella senza la quale Pelle di Prozac probabilmente non sarebbe mai esistita così com’è, è stata con Lorenzo Avanzi. Il suo ruolo non si è limitato alla produzione musicale. È stato una presenza costante, silenziosa quando serviva, precisa nei momenti giusti, capace di orientare anche quando io avevo perso l’equilibrio. Conosce le mie fragilità artistiche, sa quando lasciarmi spazio e quando intervenire, e questa cosa ha fatto tutta la differenza.
In studio non abbiamo mai avuto un approccio rigido. Nessuno schema da seguire. Molto è nato da confronti improvvisi, da idee buttate lì, da errori diventati possibilità. Spesso si trattava di togliere piuttosto che aggiungere. Abbiamo cercato un equilibrio che non fosse costruito, ma sincero. E ogni volta che qualcosa sembrava funzionare “troppo” bene, ci fermavamo. Per capire se era davvero necessario.
La parte tecnica, certo, è stata importante. Ma quello che ha davvero inciso è stato il legame umano. Le telefonate fuori orario, le revisioni fatte più per esigenza emotiva che per strategia. I momenti in cui io non avevo voglia di sentire nulla, e lui semplicemente aspettava.
C’è un’intesa rara, fatta di fiducia. Di ascolto vero. E senza quel tipo di complicità, questo brano non avrebbe avuto la stessa identità. Sarebbe stato altro. Magari più rifinito, ma meno vero. E per un pezzo come questo, così intimo, era fondamentale che ogni cosa fosse al posto giusto. Anche se imperfetta. Anche se fragile.

Se potessi avere la bacchetta magica, cosa desidereresti di più al mondo in questo momento?
Credo che se avessi una bacchetta magica tra le mani, oggi, non chiederei qualcosa di enorme. Non un successo clamoroso, non un salto improvviso. Desidererei qualcosa di molto più semplice, ma che spesso sembra introvabile. Vorrei lucidità. Una forma di chiarezza interiore che mi permetta di capire meglio quello che sento, quello che voglio dire, quello che voglio essere.
Ci sono giorni in cui tutto si confonde, in cui anche le emozioni più familiari sembrano perdere forma. E allora sì, vorrei riuscire a restare in contatto con me stesso anche nei momenti in cui mi sfuggo.
E poi vorrei pace. Ma non una pace statica o passiva. Una pace che sappia convivere con il movimento, con l’inquietudine, con la complessità. Una sorta di equilibrio emotivo che non dipenda dalle cose che vanno bene o male, ma da una presenza più profonda.
Forse è una richiesta troppo astratta. Ma in fondo, tutto ciò che conta davvero lo è. Non desidero qualcosa da mostrare. Desidero qualcosa che resti, che mi abiti. Anche in silenzio. Anche senza un motivo apparente. E se potessi davvero scegliere, se fosse possibile fermare per un attimo il rumore intorno, allora sceglierei quello. Un respiro pieno. Un momento di verità senza tensione. Qualcosa che assomigli alla serenità, ma senza la paura che possa sparire.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
In questo momento sto lavorando con l’intenzione di pubblicare una canzone al mese. Non è una sfida produttiva fine a se stessa, non cerco un ritmo forzato. È più un modo per restare connesso, per non disperdere il flusso creativo che si è riacceso. Ogni brano nasce con un’urgenza diversa, ma l’idea di dargli una cadenza regolare mi aiuta a dare forma a un percorso. Un passo dopo l’altro.
Sto scrivendo molto. Con più libertà e meno filtri rispetto al passato. Alcuni pezzi sono già pronti, altri stanno ancora cercando il loro posto. Ma l’obiettivo è chiaro: costruire un corpo di lavoro che non sia solo una raccolta di canzoni sparse.
L’album arriverà dopo. Non subito, ma non troppo in là. Non sarà solo una somma di tracce, quanto piuttosto un punto d’incontro tra momenti diversi. Una mappa emotiva, se vogliamo. Non ho fretta. Voglio che sia coerente, sincero, necessario. Non per il mercato, non per le aspettative. Per me.
E se nel frattempo i singoli riusciranno a parlare a qualcuno, a restituire un frammento di qualcosa che magari anche altri stanno vivendo, allora il processo sarà già compiuto. Il disco sarà solo il punto in cui tutto si ricompone. O si apre di nuovo. Dipende da come lo si guarda.

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