Evelina, artista indipendente e queer che ha scelto l’anonimato per andare oltre ogni apparenza e proteggere la musica, le visioni e le parole da pregiudizi, sovradeterminazioni e semplificazioni.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare Evelina che ha volito condividere con noi l’emozione che ha provato con l’uscita del suo nuovo album!
INTERVISTA
Ti ricordi come è avvenuto il tuo primo contatto con la musica?
E chi se lo dimentica. Probabilmente è anche uno dei miei primi ricordi in assoluto. Avrò avuto tre-quattro anni, stavo salendo le scale con mia mamma per tornare a casa. A un certo punto dalla porta di uno degli appartamenti del palazzo (molto popolare) in cui vivevamo, parte “E la luna bussò” della Bertè a un volume altissimo. Ne rimasi sconvolta, ho avuto una percezione quasi fisica di quella musica, di quelle parole e di quella voce graffiante ed espressiva che il rimbombo dei pianerottoli rendeva ai miei sensi ancora più aliena e potente. L’ho letteralmente abitata, al punto che il ricordo di quegli istanti è sinestetico: luce, odori, visioni, sensazioni tattili, li ho in me come se mi si fosse rivelata stamattina. Quella luna ha bussato alla mia anima, e l’ha accesa.
Qual è stato il momento in cui hai capito di voler intraprendere questa strada?
Forse proprio in quell’istante. E questa, se vuoi tagliarla, è la risposta più breve. Ma credo che quell’istante sia stato solo la prefigurazione di ciò che già ero. Il fondatore della psicologia archetipica, James Hillman, sosteneva che ognunə nasce con una ghianda all’interno della quale è già espresso tutto il senso dell’albero che potrà essere. Questa necessità profonda e urgente, contrastata o assecondata nel nostro intero viaggio da noi stessə, dagli incontri (a partire dalla famiglia, che in questa visione non “crea” ma accoglie qualcunə e qualcosa che non gli appartiene fino in fondo) e dagli accadimenti che ne segnano o segano le radici, il tronco, i rami. Si può (si deve) diventare quell’albero o si può far avvizzire quel seme e perdersi. È forse questo il vero “lavoro” dell’esistere, credo. Tutto questo pistolotto per dirti che nella mia ghianda una forte percezione dello spazio-tempo e della cura si sono tradotti sin dall’infanzia nel divenire che sono. La fotografia risponde alla mia ipersensibilità allo spazio, la musica e la scrittura esprimono il mio bisogno di giocare col tempo. La cura è il tessuto connettivo che lega queste dimensioni, di cui mi sento un mero strumento, e le porge naturalmente all’altrə. La mia strada non è quindi la sola musica, ma la danza tra questa ipersensibilità allo spazio, al tempo e all’urgenza di condividere quel che mi attraversa, che è il desiderio di contribuire, col poco che sono e che porto, alla cura dell’anima mundi.
A chi consiglieresti, in particolare, l’ascolto del tuo album “L’Assedio”?
A chiunque voglia farsi raggiungere da uno schiaffo e da una carezza, con l’invito a fare tutto quello che serve per imparare a distinguerli. Chi cerca invece di anestetizzarsi il cuore e distrarsi la mente, ne stia alla larga. Per parafrasare Magritte, ce n’est pasun disco per l’estate, per questo esce qui e ora.
Questo disco si lega anche al progetto fotografico Eclissi. Cosa puoi dirci su questo legame?
La sollecitazione meccanica attraverso il deragliamento cognitivo che provo a operare con le parole, le note e le visioni, è la stessa. Cosa accade quando si sottrae alla visione e al desiderio una natura potente, che non è solo forma ma soprattutto sostanza e che non ha bisogno di visione e desiderio per esistere ed emanare la sua energia? Il dialogo tra queste due dimensioni, la stessa scelta di restare nell’ombra, tutto proverà a rispondere a questa domanda e a porne di nuove. Ho deciso di sospendere il filo esile del mio discorso e farlo oscillare sulla possibilità che tutto svanisca, che un cambio radicale del punto di vista su noi stessə e sull’altro (dentro e fuori da questa fortezza in pieno e inconsapevole declino), possano rivelarci la forma di una rivoluzione più umana e più cosmica, insieme. E quella forma insorgente è, è stata e deve essere femmina…
Consigliaci un pezzo che tutti dovrebbero assolutamente ascoltare.
“La domenica delle salme” di Fabrizio de André. Non è una canzone, è la tragica biografia di una nazione, di una cultura intera. È una precisissima e potentissima profezia, come solo alla poesia è dato. “Mentre il cuore d’Italia / da Palermo ad Aosta / si gonfiava in un coro / di vibrante protesta / (coro di cicale)” Da quel rumore e da quel torpore non siamo mai più uscitə. È giunto il momento di svegliarci.
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